CIRCOLARITÀ: La nuova frontiera della moda

articolo in collaborazione con Silvia Gambi

 

Silvia Gambi è una giornalista professionista specializzata in tessile che vive a Prato. È autrice della piattaforma “Solo Moda Sostenibile”, che si compone di diversi strumenti di informazione su questo tema: un podcast, una newsletter settimanale, un magazine. Tutto disponibile sul sito. www.solomodasostenibile.it - @solomodasostenibile

 

 

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Riduci, riusa, ricicla: ecco sintetizzati i tre comandamenti dell’economia circolare, un nuovo approccio alla produzione e al consumo che sta contaminando tutti i settori. Quello della moda è particolarmente interessato da questa vera e propria rivoluzione: la moda non solo è la seconda industria più inquinante al mondo, ma è anche colpevole di produrre una grande quantità di rifiuti tessili destinati all’inceneritore, in mancanza di soluzioni alternative. C’è molto fermento su questo tema e i brand dell’abbigliamento stanno lavorando sull’uso di una progettazione e di una scelta di materiali che permetta ad un capo a fine vita di trasformarsi in qualcosa di diverso. Qualcuno ha paragonato la rivoluzione produttiva innescata dall’economia circolare alla rivoluzione industriale: quello che è certo è che l’Europa ha deciso di investire su questa transizione in maniera decisa, mettendo a disposizione 50 miliardi di euro per finanziare il “Green New Deal”.

L’economia circolare ha l’obiettivo di riutilizzare i materiali in successivi cicli produttivi, riducendo al massimo gli sprechi. Quello che indossiamo adesso non è progettato per essere riutilizzato, ma solo per essere consumato. Gli europei consumano in media 26 kg di tessuti per persona all'anno: una quota significativa di questi proviene da paesi terzi. Ogni articolo viene utilizzato per un breve periodo e ogni persona getta in media 11 kg di abiti ogni anno. Molti di questi vestiti potrebbero ancora essere indossati.

 

Se il numero medio di volte in cui un indumento viene indossato fosse raddoppiato, le emissioni di gas serra dei tessuti sarebbero inferiori del 44%. Usare i capi più a lungo significa che sono necessari meno nuovi articoli, riducendo così l'uso di combustibili fossili e prodotti chimici, oltre a ridurre i volumi di uso dell'acqua e del suolo per la coltivazione di fibre come il cotone.
Per questo il tema della manutenzione dei capi è diventato così importante: allungare la vita di un capo significa ritardare il momento in cui finirà in discarica. Significa anche tornare ad amare quello che indossiamo, liberandoci dalla schiavitù del fast fashion, che ci costringe a desiderare sempre cose nuove. Quando un capo ha terminato la sua permanenza nel nostro armadio, può essere riusato: può essere condiviso o scambiato oppure può essere donato ad associazioni di volontariato, che provvederanno a immetterlo nei mercati del second hand. Possiamo anche allontanarci dalla logica del possesso: stanno nascendo interessanti start up che propongono abiti e accessori a noleggio, un’opportunità interessante per il consumatore che è interessato ad acquistare un abito per un’occasione speciale e che sa già di non avere possibilità di indossarlo un’altra volta.

 

 

 

Ma se quando viene gettato, il capo è rovinato in maniera irrecuperabile, cosa si può fare? Qui arriva la fase più delicata, che rappresenta anche la maggiore sfida che stanno affrontando i brand della moda. Oggi la maggioranza di questi rifiuti tessili finiscono in Africa o in India, dove vengono bruciati, creando un fortissimo inquinamento ambientale. Stiamo invadendo i Paesi più poveri dei nostri scarti.

 

Di fatto oggi per riciclare un capo di abbigliamento è necessario innanzitutto smontarlo delle sue componenti: è un lavoro fatto a mano, molto complicato e il valore della materia recuperato spesso non è sufficiente a coprire i costi della lavorazione. Perché un capo possa essere smontato e le varie parti di cui è composto possano essere riciclate, è necessario che il capo sia stato progettato già con questo fine. Ad esempio, deve essere realizzato con fibre omogenee e non con miscele complicate: il 100% cotone o il 100% poliestere può essere più semplice da riciclare che un capo realizzato con un mix di fibre e di colori. Ormai si trova in commercio il poliestere riciclato fatto con le botti-glie di PET usate oppure il nylon rigenerato che viene dalle reti da pesca: ma non sono materiali che arrivano dai vestiti usati. Su questo tema la sfida è ancora aperta.

 

È anche importante fare attenzione a quello che significa “riciclato”: sempre più spesso troviamo etichette con questa scritta che accompagna i capi. Ma è difficilissimo trovare indicata la percentuale di materiale riciclato presente in un capo: c’è chi etichetta così un capo che contiene solo il 15% di materiale proveniente da riciclo. Il consumatore può essere tratto in inganno da una informazione opaca che gli fa acquistare qualcosa che non rappresenta i suoi principi. Alla fine, siamo quello che indossiamo: oggi più che mai.

 

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Bavagli Ottod'Ame per Family Nation